Non è una novità, nel mondo della moda (e non solo), l’America lancia l’amo annunciando stravolgimenti di precari equilibri commerciali di un sistema in crisi, e l’Europa risponde, o meglio, non sa come rispondere.
Il tema caldo di questi giorni è l’utilità delle sfilate a cadenza semestrale da cui consegue l’impossibilità d’acquisto immediata dei capi in passerella da parte dei clienti, tanto da porre la domanda: fashion week Sì o fashion week No?
La domanda posta dal COUNCIL OF FASHION DESIGNERS OF AMERICA a tutto il fashion system è chiara: perché costringere il cliente ad aspettare almeno 4 mesi per acquistare ciò che vuole nell’immediato?
In una società dove le immagini e le emozioni si consumano nel tempo di un click sul “like”, sul “cuore”, sul “follow” e ancor più velocemente sull’ “unfollow”, i clienti finali vivono direttamente l’esperienza shopping mentre presenziano o guardano in streaming la sfilata. Vogliono tutto e subito, giustamente, aggiungo io.
Risparmio il riassunto delle posizioni assunte dalle maison, che potete leggere in altre sedi; interessanti però le parole di Carlo Capasa che presentando il calendario della Milano Fashion Week sostiene l’importanza della sfilata come momento di dialogo creativo in cui i designer lanciano messaggi forti che il cliente finale riesce ad apprezzare solo dopo un periodo di decantazione. Non vi sembra infatti che la recente Gucci-mania ne sia la prova lampante? Prima erano tutti indignati davanti all’uomo di Alessandro Michele con tanto di sfottò sul ritorno del femminiello, adesso invece tutti contenti a postare foto in camicette coi volant, pigiami e ciabatte di pelo.
Insomma, tornando al nocciolo della questione, il problema è sempre lo stesso: l’America pensa coi numeri, l’Europa con un approccio più emozionale e culturale. Non ho gli strumenti sufficienti per decretare quale sia il migliore, ma se dei designer americani non ci rimane in mente nemmeno un abito a fine sfilata, mentre i designer europei vengono copiati dalla grande distribuzione low cost per almeno tre stagioni consecutive, forse ci sarà un motivo, no!?
Riprendendo con le riflessioni di Capasa, tra i motivi che giustificano la necessità delle sfilate, ci sono pure i new talent. La sfilata infatti, spesso sostenuta a zero costi o a quote ridotte, è il momento in cui questi designer sconosciuti hanno il picco massimo di visibilità, ed è importantissimo visto che sono necessari grandi investimenti pubblicitari per farsi notare e di certo non bastano delle foto in un sito web o sui social per far circolare il nome.
Smettere di fare sfilate (ma che davvero?) o creare sfilate ad hoc per il pubblico, come proposto dagli americani, potrebbe andare bene per i grandi marchi, ma non permetterebbe di far conoscere le voci fuori dal coro, quelle dei designer emergenti, che essendo agli inizi contano su produzioni piccole, non in grado di far fronte alle richieste in breve tempo, se non con investimenti colossali. Inoltre, se introducessimo questo tipo di sfilate (o le cancellassimo del tutto), non potremmo conoscere realtà come “GENERATION AFRICA”, il progetto di Fondazione Pitti Discovery in collaborazione con ITC ETHICAL FASHION INITIATIVE che durante Pitti Uomo 89 ha puntato i riflettori sui nuovi talenti africani, presentando in passerella le collezioni di AKJP, Ikiré Jones, Lukhanyo Mdinigi x Nicholas Coutts e U.Mi-1.
Quattro designer africani che proiettandosi sul mercato internazionale, vogliono trasmettere un’immagine diversa del loro paese di origine, fatta di innovazione, diversità, energia giovane, oltre che di opportunità di business. Senza questo tipo di sfilata, non sarebbe possibile nessuno sviluppo per loro e fa quasi ridere pensare che la copertura stampa maggiore per questo tipo di iniziativa sia stata proprio quella straniera con titoloni sul NYT.
Come avrebbero mai potuto conoscere questi quattro designer emergenti in America se non attraverso le parole entusiastiche dei giornalisti presenti a Pitti Uomo 89? Ma allora, cari miei americani, quando sostenete che le sfilate sono inutili, di cosa stiamo parlando?
Alessandro Masetti – The Fashion Commentator
Ph credits: foto esclusive di Guaizine per The Fashion Commentator
Ora gli americani lo mitragliano…ahahah
Ci piace il tuo criticismo distaccato Aleeeee. Non hai paura di nessuno
<3
http://7-sevendays.blogspot.it/
Ho letto e tra-letto sulla questione e ti dirò che io la penso davvero come Capasa!
E’ vero che la moda è business, ma non togliamogli anche quel momento di riflessione, di decantazione appunto delle nuove tendenze..non diamo subito in pasto le nuove collezioni così che uno manco si rende conto che lavoro ci sia dietro..
E poi vogliamo davvero tagliare il lavoro ai designer di Zara&Co che poi non sapranno più da chi copiare?!?
XOXO
Cami
Paillettes&Champagne