Bisogna ammetterlo: per non sbadigliare davanti alle passerelle della New York Fashion Week tocca guardare solo quei player della moda che in poche stagioni sono riusciti a guadagnarsi un seguito anche al di fuori della cerchia di giornalisti pseudo-intellettuali del vecchio continente.
Fin qua, tutto normale, anche perché i grandi nomi americani, o almeno quelli che rimangono, ci rifilano sempre abiti dalle silhouette anni ’90 tempestati di fiori o in tessuti lucenti improponibili, che la peggior giornalista di serie B e la bloggerina di provincia (non so con quale coraggio) riescono a definire con l’insignificante espressione “da sogno”.
Ma chi sono questi outsider della moda, non poi così out?
Stagione dopo stagione tra questi fantomatici player e outsider si sta affermando la triade Gosha Rubchinsky, Shane Olivier di Hood by Air e Demna Gvasalia di Vetements: fenomeni di nicchia che stanno ridefinendo la loro popolarità in termini virali tanto da rendere impossibile l’acquisto di uno qualsiasi dei loro capi, poiché già sold out appena immesso nel mercato.
Ovunque sfilino tra New York, Firenze, Londra e Parigi, molti cercano di etichettarli, ma soprattutto di dare una spiegazione logica e sociologica al successo delle loro linee che, per intento stilistico-programmatico sono autodefinite come “semplici vestiti”, anche se ormai la t-shirt da fattorino della DHL di Vetements non è più una semplice t-shirt da fattorino della DHL, ma un must have da centinaia di dollari.
Vuoi perché coetanei, vuoi perché in comune percepiscono lo stesso disagio nei confronti della crisi del sistema moda odierno, tutti questi designer sono figli della necessità di una maggiore tolleranza nei confronti del prossimo: con i loro look a-gender rivendicano infatti uguaglianza, parità e soprattutto un ritorno alla semplice normalità. Ovviamente tutto ciò è da intendersi in termini puramente ideologico-estetici, perché se guardiamo il prezzo sul cartellino il tipico divario classista della moda aumenta, eccome. Anche se dobbiamo ammettere che per rientrare nella loro filosofia basta procurarsi una vecchia maglietta col logo di un brand sportivo caduto nel dimenticatoio, reperibile non solo nei mercatini di seconda mano per pochi euro, ma anche nell’armadio dei nostri genitori tra le “cose da buttare, ma che non hanno mai avuto il coraggio di buttare”.
Ciò che però rende oggettivamente perplesso lo spettatore di una sfilata come quella della collezione primavera estate 2017 di Hood By Air, non è quel senso di “nuova normalità” che il designer Shane Olivier cerca di ridefinire ogni volta infrangendo la distinzione tra generi e orientamenti sessuali, ma quel violento impatto visivo che rende i suoi capi delle autentiche torture che umiliano il corpo umano. Già Alexander McQueen rese indossabili le torture, ma il messaggio era nettamente diverso, con intento riflessivo, poetico, politico ed etico. Erano altri tempi.
Stivali a doppia punta, occhiali con lenti che sembrano lame, loghi di piattaforme digitali dell’industria del porno, scarpe sadomaso collegate tra loro da lacci di pelle che impediscono di camminare, camicie e capispalla in acetato simili a custodie per riporre gli abiti nell’armadio, sono solo alcuni elementi disturbanti che fanno colpo sulla nuova generazione di consumatori, pronti a fotografarli e a farsi fotografare con questi nuovi must addosso.
Dicono che questa sia la nuova semplicità che riscrive lo streetwear contemporaneo, orfano delle subculture. Ma a quanto pare la musica è sempre la stessa: chi bello vuole apparire, un po’ deve soffrire. Soprattutto da quando il senso del Bello passa attraverso la tortura corporale.
Alessandro Masetti – The Fashion Commentator